Ti tocca nella profondità della vita e vi si incide in modo indelebile questo breve preziosissimo racconto nel quale il maestro Ikeda sembra aver riversato tutta l’intensità del suo sentire riguardo al tema della bomba atomica. È un libro che ogni discepolo, ogni discepola dovrebbe leggere, perché trasmette in modo vivido l’esperienza indicibile vissuta dalle vittime della bomba atomica - di cui proprio in questi giorni ricorre l’anniversario - e allo stesso tempo il valore assoluto della vita e l’imperativo di lottare per proteggerla eliminando dalla faccia della terra questa minaccia atroce.
Il racconto ha inizio con un treno lanciato a tutta velocità attraverso la campagna sotto il caldo sole d’agosto. Mentre il treno viene inghiottito da una galleria dopo l’altra, Kazushiro, il protagonista, ripensa a un caro amico che proprio in quei giorni ha tentato il suicidio. È stata un’idea di suo padre quel viaggio, preoccupato per lui e convinto che una settimana di vacanza presso la zia Yaeko, che vive a Hiroshima, possa alleviare il peso che grava sul cuore del ragazzo. La zia Yaeko è tra i sopravvissuti alla bomba atomica.
Il 6 agosto del 1945, quando il micidiale ordigno venne sganciato sulla città, si trovava a circa un chilometro e mezzo dal luogo dell’esplosione. Un’esperienza terribile di cui aveva continuato a soffrire anche dopo la fine della guerra. “Chiedi alla zia di raccontarti che cosa è successo”, aveva suggerito il padre a Kazushiro.
Così ha inizio questo viaggio attraverso la tragedia della bomba atomica accompagnati dalle parole di Sensei, con una semplicità e una forza di testimonianza che si incide nel cuore.
La visita di Hiroshima attraversa il presente di una città inondata di automobili e affollata di persone, solo di tanto in tanto uno squarcio si apre nel tessuto della normalità ricostruita e fa balenare una traccia dell’inferno scatenato al momento dell’esplosione. Dietro quell’apparente benessere, quel tragico istante ha lasciato su ogni cosa un segno indelebile, malgrado siano passati tanti anni. Il quinto giorno Kazushiro visita con la zia il Museo del Memoriale della Pace, dove si conservano materiali che mostrano l’entità dei danni provocati dall’esplosione. All’interno stanno proiettando un documentario con filmati di Hiroshima e Nagasaki.
«Una dopo l’altra, immagini di sopravvissuti balenarono sullo schermo. Una persona ustionata e coperta di vesciche… una seconda, un’altra ancora. Poi, un uomo con bruciature su tutta la schiena. E ancora, una madre colpita in pieno volto dai raggi termici, e neonati che non si sarebbero mossi mai più. A un certo punto apparve una ragazzina. Era in piedi, perfettamente immobile. Aveva un’aria dolce, malgrado fosse rimasta completamente calva. Guardava fisso verso la macchina da presa, e il suo sguardo era stranamente calmo e tranquillo. Che cosa stava provando questa ragazzina che era rimasta esposta alle radiazioni e aveva perso tutti i capelli? Che cos’era successo a sua madre e a suo padre? E che ne era stato di lei dopo la fine del film? Un’altra bambina di sette, forse otto anni giaceva distesa su un letto e si contorceva debolmente fra continui singhiozzi. Un dottore e un’infermiera facevano del loro meglio per curarla. Per un po’ il film proseguì senza audio, poi si iniziò a sentire una voce fuori campo. Disse che la bimba stava mormorando: “Mammina, mammina”. “Ancora oggi”, proseguì, “la sua voce riecheggia nelle orecchie dell’operatore che girò questo film”» (Il quaderno di Hiroshima, pagg. 54-56)
Incalzata dalle domande di Kazushiro la zia prende tempo, procrastinando il suo racconto della tragedia, che tuttavia incombe in ogni riga. Solo l’ultima sera, in tono sommesso, Yaeko comincia a parlare:
«Avevo più o meno la tua età, Kazushiro. Quel giorno... c’era un sole cocente, e il cielo era una lastra blu» (Ibidem, pag. 74).
Così comincia il suo lungo racconto. Yaeko aveva quattordici anni e frequentava il secondo anno delle superiori. La vita allora era segnata in ogni suo aspetto dalla guerra. Oltre agli adulti, anche gli studenti delle medie inferiori e le studentesse delle superiori erano chiamati a dare una mano nelle fabbriche di munizioni o nelle demolizioni di edifici finalizzate a creare barriere di terra contro gli incendi. Il 6 agosto del ‘45 Yaeko si trovava nel sito di demolizione già dalle prime ore del mattino. Le lancette dell’orologio indicavano le 8.00.
«In quel momento qualcuno gridò: “Ehi, c’è un paracadute!” Dove? Yaeko scrutò il cielo. L’istante successivo una luce intensa, centinaia di volte più abbagliante di quella del sole, squarciò la volta celeste. Yaeko cadde al suolo. Un secondo più tardi lei e le altre furono investite da una raffica di vento e da un rombo assordante, che fece tremare la terra. Yaeko si sentì sollevare in aria. Quando riprese conoscenza, si ritrovò avvolta da una tetra penombra. L’aria era permeata da una specie di fumo giallastro, e ovunque regnava un lugubre silenzio. Gli edifici erano completamente distrutti. Nessuna traccia delle sue compagne di classe. Yaeko alzò la testa. In una parte del cielo si stava sinistramente sollevando un’immensa nuvola ondeggiante inondata di luce arancione. Non aveva mai visto nulla di simile. La nube che emetteva quella strana luce diventava sempre più grande. Deve essere successo qualcosa di incredibile, pensò Yaeko. […] Tutt’intorno si sentivano gemiti e grida. Qua e là, qualcuno cominciava a rimettersi faticosamente in piedi, gli abiti ridotti a brandelli e i capelli ritti in testa. […] Le rive del fiume erano affollate di gente che vagava alla spasmodica ricerca di una via di fuga. Tutti sporchi e imbrattati di sangue, si aggiravano intorno come fantasmi. Dalle mani e dalle braccia che tenevano protese in avanti pendeva qualcosa. Guardando più da vicino, Yaeko si accorse che era pelle. Un bambino piccolo separato dai genitori strillava terrorizzato. Poi, d’un tratto, crollò a terra e non si rialzò più. Qua e là iniziavano ad attecchire incendi. In un baleno il fuoco cominciò a divampare, guadagnando forza. Le fiamme salivano verso il cielo, producendo faville che turbinavano nell’aria. Le persone rimaste intrappolate in quei vortici divennero presto nere di fuliggine mentre, vacillando, cercavano una via di scampo. Sembrava l’inferno» (Ibidem, pagg. 77-80).
«Yaeko non aveva idea di dove fosse stata o di come fosse arrivata lì. Quando si riscosse capì di trovarsi vicino al ponte Sakae. Era dunque giunta a metà percorso. La riva opposta era avvolta da un mare di fiamme. Innumerevoli corpi carbonizzati e gonfi erano sparsi ovunque, sul ponte e per la strada. Non riuscendo più a sopportare il calore, Yaeko scese nell’area sabbiosa sul ciglio del fiume. Il lido era stipato di persone seminude, perché i loro indumenti erano bruciati. In acqua galleggiavano mucchi di cadaveri. All’improvviso la zona fu investita da una ventata di calore intenso. Di tanto in tanto le raffiche generavano vortici che facevano volare per aria imposte in fiamme e lastre di stagno galvanizzato. Uno di questi turbini urtò contro la superficie dell’acqua, sollevandone una colonna che cominciò a ruotare intorno al proprio asse. Temendo di essere spazzata via, Yaeko afferrò un palo sul limitare del fiume e vi si tenne tenacemente aggrappata, mentre granelli di sabbia e spruzzi d’acqua le sferzavano il volto e le mani. Che cosa era successo a Hiroshima? Dov’erano finite le sue strade verdi e luminose, le cicale che colmavano del loro incessante frinire quella che fino a poco prima era stata una normale giornata estiva?» (Ibidem, pagg. 80-81).
Ecco alcune pagine che descrivono ciò che accadde quel giorno di 80 anni fa, e poi nei giorni, nelle settimane e nei mesi successivi. La disperata ricerca della madre percorrendo le strade affollate di persone in fin di vita, e poi la ricerca del padre, medico, rimasto notte e giorno accanto ai superstiti nel tentativo disperato di curarli, e in seguito lui stesso morto di leucemia. E ancora nei mesi successivi la morte della madre, in seguito alle radiazioni. Il dolore fa seguito al dolore, fino a portare Yaeko all’idea del suicidio… Ed è proprio in quel momento fatale, sospesa su un ponte, che la giovane incontra inaspettatamente il suo amato maestro delle elementari, che la lodava sempre, che la riconosce… “La morte è una scelta facile”, le dice, indovinando ciò che ha nel cuore. Anche lui ha perso la moglie e i due figli a causa della bomba, e le racconta di essere stato sopraffatto a un certo punto dalla disperazione:
«“Poi però, un po’ alla volta, capii qual era la cosa più importante. In qualche modo ero sopravvissuto, e se avessi sprecato la mia vita, quella vita che mi era stata risparmiata, avrebbe voluto dire che era bastata l’esplosione di una sola bomba per sconfiggerci totalmente. Ora più che mai dobbiamo dimostrare il potere dell’umanità. Persino contro un’arma terribile come la bomba A, non dobbiamo crollare, né perdere la speranza: al contrario, dobbiamo far vedere quanto può essere forte lo spirito umano. Io dovevo sopravvivere per mia moglie e i miei figli, dovevo vivere anche la parte di vita che a loro era stata tolta. Fu questa la mia decisione” […] “Credimi, Yaeko, so esattamente come ti senti. Ma non importa quante difficoltà possano nascere nella vita, lo spirito umano può superarle tutte. Il nostro animo è molto, molto più forte di qualsiasi bomba. Abbiamo il dovere di dimostrarlo per riguardo verso coloro che sono morti. Non lo pensi anche tu, Yaeko?”» (Ibidem, p. 106)
Mentre parla il maestro estrae dalla tasca e scrive qualcosa su un piccolo taccuino, poi strappa il foglio e lo porge a Yaeko. Ci sono scritte queste parole:
«“Il destino non decide della nostra felicità, ci dà solo la materia prima con cui operare. I nostri cuori modificano questa materia, usandola a loro piacimento. Per trovare la felicità occorre avere uno spirito indomabile, capace di sopportare qualsiasi avversità”» (ibidem, p. 107)
Nel profondo del cuore di Yaeko balena una luce. Ogni vita umana è unica e preziosa. Una volta compreso ciò, promette a se stessa di far conoscere a quante più persone possibili gli effetti terrificanti della bomba. È questo che l’ha sempre tenuta in vita, e afferma: “Ora io e gli altri superstiti vogliamo che voi giovani proseguiate la nostra missione, costruendo un mondo di pace, libero dalla minaccia delle armi nucleari”. Riflettendo sull’esperienza della zia Yaeko, Kazushiro comprende per la prima volta che dono incalcolabile sia la sua vita e quella di tutti gli altri giovani della sua generazione. E d’un tratto prova un intenso desiderio di rivedere il suo amico che ha tentato di suicidarsi. Chissà come stava in quel momento? “Nakamura non mollare!”, gli grida mentalmente più volte mentre il treno di ritorno verso Tokyo acquista velocità. Nakamura giace ancora ricoverato, impermeabile a qualunque tentativo di incoraggiarlo. Ma quella che inizia con il rientro di Kazushiro è un’altra storia. Non possiamo svelarvi come finisce, ma senz’altro si tratta di una vittoria clamorosa della forza dell’incoraggiamento, in una commovente staffetta di speranza trasmessa da una generazione all’altra.
Il maestro Ikeda, in queste pagine finali, scrive:
«Avere un animo pacifico vuol dire non fuggire da se stessi, non cercare di evitare le avversità, e aiutare e incoraggiare chi è in difficoltà. Se tutti facessero questo, non ci sarebbero più guerre» (ibidem, pag. 145).

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