Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione · Il Nuovo Rinascimento · Rivista della Soka Gakkai Italiana dal 1982 ·Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione ·Il Nuovo Rinascimento · Rivista della Soka Gakkai Italiana dal 1982 ·

868  | 
20 giugno 2024

Una nuova narrazione di pace

Chiara Marchetti, di CIAC Onlus

In occasione della Giornata mondiale dei rifugiati, abbiamo intervistato Chiara Marchetti, responsabile dell'area progettazione, ricerca e comunicazione di Ciac Onlus (Centro immigrazione asilo e cooperazione internazionale)

immagine di copertina
Chiara Marchetti

A fine anni ‘90 ero una studentessa di Scienze internazionali diplomatiche a Gorizia. Vivevo proprio sul confine con la Slovenia, un confine fortemente attraversato a piedi da chi arrivava dai Balcani tra cui afghani, pachistani, curdi, palestinesi e di altre provenienze. Per me era abbastanza inevitabile non girarmi dall'altra parte, così intrapresi un’attività come volontaria facendo le notti in una struttura che dava prima accoglienza ai migranti in transito. Da quel momento ho iniziato un percorso di ricerca e approfondimento.
Sono una sociologa di formazione e ho sempre cercato un equilibro tra la ricerca di elementi di analisi dei fenomeni emergenti e la ricerca di piste di lavoro concrete.
Questo equilibrio è importante per dare risposta a ciò che ci accade intorno, che cambia rapidamente, e per il quale dobbiamo essere pronti a reagire in modo consapevole, basandoci non su percezioni astratte ed opinioni ma su evidenze che andiamo a raccogliere.

Per l'associazione Ciac, Centro immigrazione asilo e cooperazione internazionale, in cui attualmente lavoro, è sempre stato fondamentale costruire un percorso verso queste giornate di celebrazione. Creare delle tappe per coinvolgere diversi attori e per proporre delle chiavi di lettura concrete che permettano poi di sviluppare dei percorsi.
Quest’anno con Ciac abbiamo creato una serie di momenti partecipativi, laboratori e focus group con i rifugiati e le rifugiate per creare un comunicato stampa, una lettera aperta, scritta direttamente da loro che verrà letta e pubblicata il 20 giugno. In questo percorso abbiamo coinvolto anche cittadini e cittadine italiane. E questo approccio di portare l’esperienza e il coinvolgimento diretto delle persone ci permette di non cadere nella trappola di far solo una “sfilata di buone intenzioni” ma rende la Giornata mondiale del rifugiato una tappa dentro un percorso più ampio…

Le persone sfollate costrette ad abbandonare la propria casa sono sempre di più, anno dopo anno superano dei limiti che sembravano irraggiungibili.
Le stime dei dati 2024 dell’UNHCR, parlano di 120 milioni rispetto ai 110 del 2023, un tasso di crescita davvero impressionante; 110 milioni di persone significa una media nel pianeta di una su ogni 71 persone, dato che chiaramente cambia da contesto a contesto…
Dal punto di vista giuridico, ai sensi della Convenzione di Ginevra, un rifugiato è una persona perseguitata o con fondato timore di persecuzione, per un numero limitato di cause ma ci sono milioni di sfollati interni cioè persone che sono costrette ad abbandonare il luogo in cui sono nate ma che non varcano un confine internazionale. Tutte loro tecnicamente non sono definite rifugiate.
Se già è difficile per un rifugiato “doc” al 100% ottenere riconoscimento e protezione per raggiungere un Paese sicuro, figuriamoci per tutti gli altri.
In questo momento ci sono circa cinquanta conflitti nel mondo. Le motivazioni che costringono le persone ad abbandonare la propria casa spesso sono multiple, ci sono aree del mondo in cui è impossibile discernere quali sono le cause. Una condizione di povertà grave può essere legata alla siccità o alla difficoltà di approvvigionarsi del cibo, in alcune zone ci sono Governi autoritari che discriminano i propri cittadini in base all'etnia o altri fattori. Da un certo punto di vista le cause economiche, climatiche e politiche sono assolutamente indistinguibili e interconnesse.

Il timore è che, nel momento in cui si dovesse aprire un dibattito, si potrebbero aprire scenari ben più repressivi che rispecchiano la sensibilità politica dei Paesi più industrializzati “del Nord”. Questi spesso sono Paesi che abbracciano una retorica dell'invasione, come se chi cerca di arrivare fosse un usurpatore.
Più del 75% delle persone in fuga restano nelle zone vicine a quella da cui fuggono, Paesi a bassissimo reddito che portano il carico principale della gestione dell'accoglienza, che hanno condizioni più sfavorevoli in termini economici e di infrastrutture di quelle che potrebbero esserci in altre zone più ricche del mondo.
Il paradosso è che coloro che hanno il potere di avviare un dibattito di questo tipo, sono quei soggetti che non hanno il carico maggiore e che spesso sono tra i principali “colpevoli” del cambiamento climatico, o che per centinaia di anni hanno avuto politiche di usurpazione e di sfruttamento coloniale nei confronti dei Paesi del sud del mondo.

Siamo in una situazione che ci impone un cambio di narrazione e la libertà di movimento è un tema su cui a mio parere si può insistere culturalmente.
Le nuove generazioni cresciute in Italia hanno una libertà indiscussa di viaggio e possono esercitare pienamente quel principio di cittadinanza globale che ci piace credere valido per i nostri giovani. Siamo portatori di un privilegio.
Quando parliamo di migrazione, prima ancora di ragionare in termini di risorse economiche, strutture di accoglienza, legislazioni, se potessimo cambiare il paradigma e parlare di libertà di movimento, ci accorgeremmo che moltissimi dei rifugiati che arrivano nel nostro Paese sono costretti a intraprendere dei viaggi rischiosissimi. Pagano decine di migliaia di euro, contraggono debiti, entrano in contatto con la criminalità organizzata lungo tutta la fase del loro percorso, sono soggetti a ricatto e sfruttamento quando arrivano qua perché devono ripagare un debito. La loro condizione giuridica è precaria o addirittura irregolare.
Se avessimo delle persone che rischiano meno e sono subito in una condizione di regolarità, potrebbero intraprendere un percorso più sicuro, con più fiducia e con un desiderio maggiore di contribuire positivamente allo sviluppo del nostro Paese. Allo stesso tempo, per chi ama fare i conti economici, avremmo dei costi molto inferiori. Invece di mantenere queste persone in una condizione di sfruttamento e inferiorità potremmo considerarle come giovani uomini e giovani donne che hanno idealmente lo stesso diritto, la stessa aspirazione di futuro che vogliamo avere noi e che vogliono avere i nostri figli.

Davanti a chi è diverso c’è la paura ma anche la curiosità e l’attrazione.
Una società varia è più bella, più vitale, come la biodiversità in natura. Ma questa affermazione trova forza se si connette a un’esperienza personale che si riversa a sua volta nell’immagine di comunità in cui vorremmo vivere. Ad esempio, grazie al sostegno dell’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai tramite i fondi 8x1000, abbiamo consolidato una nuova metodologia: proponiamo ai cittadini e alle cittadine italiane di mettersi a disposizione di persone rifugiate, non tanto per assisterle o aiutarle concretamente a fare le cose ma in termini di relazione, di amicizia. Il progetto Community matching mette al centro la capacità trasformativa di un legame interpersonale significativo tra due persone e come questo riesce a riverberarsi a fasce via via più ampie di persone.
Senza avere aspettative “salvifiche” le persone si mettono a disposizione per incontrare una persona rifugiata, l’esperienza diventa un vettore di trasformazione individuale ma anche di capacità di praticare delle comunità interculturali più inclusive, meno escludenti, e nel piccolo creare l'immagine di società del futuro che ci sembra auspicabile.

Credo che sia importante che ciascuno e ciascuna di noi impari a riconoscere il proprio potere, in un senso non di prevaricazione ma come quella capacità che abbiamo di trasformare il contesto in cui viviamo. Questo vale per i giovani, per chi ha posizioni istituzionali ma anche per i rifugiati e le rifugiate che, quando vengono messi nelle condizioni di parlare, molto spesso ci restituiscono un senso di forza legato a ciò che hanno attraversato e superato.
Ciascuno e ciascuna di noi ha la capacità di testimoniare, anche in una condizione estrema, quanto si abbia sempre la possibilità di agire verso il bene, verso la pace e non verso la prevaricazione.
Ce lo raccontano coloro che in modo superficiale giudichiamo come persone che non hanno niente, che hanno perso tutto, che non hanno avuto scelta. Non è così. Ce lo testimoniano con la loro stessa vita. Quel potere ce l'abbiamo sempre, anche nelle condizioni più estreme. E di conseguenza abbiamo la responsabilità di riconoscere questo potere in noi stessi. Se pensiamo che solo i politici debbano fare qualcosa, rafforziamo il senso di impotenza, diventa un alibi per sottrarsi dalla responsabilità individuale di agire nel proprio piccolo.
È nel senso di impotenza e di impossibilità di futuro che attecchiscono le politiche di esclusione perché se lo scenario è cupo, le risorse sono scarse, il privilegio me lo tengo stretto, lo difendo, la campana è suonata e si salvi chi può! Anche solo a livello di narrazione questa è una direzione che dobbiamo a tutti i costi evitare di percorrere.

©ilnuovorinascimento.org – diritti riservati, riproduzione riservata