Sono molto contenta di condividere con voi alcuni aspetti della mia storia e del mio percorso di crescita e di empowerment attraverso la pratica buddista.
Dopo la laurea in Psicologia a ventitré anni, trovai lavoro e dieci anni dopo rimasi incinta di una bambina. Già durante la gravidanza il mio compagno cominciò a manifestare una natura abusante e violenta che non avevo assolutamente visto prima.
Quando la bambina aveva ancora pochi mesi mi mandò tre volte al Pronto Soccorso, ero distrutta e impaurita, sia per me che per mia figlia. Dopo un fallito tentativo di fuga trovai rifugio dall’unica parente che avevo a Roma, iniziando pian piano a riprendere in mano la mia vita.
Nel 1996 ho conosciuto il Buddismo e sono entrata a far parte della Soka Gakkai, e da allora è iniziato il grande cambiamento.
Vivevo da sola con mia figlia, con tutte le responsabilità del caso, e lavoravo come psicologa alla ASL.
Facevo Daimoku e Gongyo regolarmente, studiavo gli scritti di Daisaku Ikeda e partecipavo a tutte le attività.
Il primo grande cambiamento è stato smettere di accontentarmi di ciò che stavo facendo e acquisire più fiducia in me stessa.
Questo mi ha dato il coraggio di proporre alla ASL dove lavoravo un progetto di riorganizzazione dei servizi pubblici per le dipendenze, che è stato accettato!
Sono stata nominata coordinatrice delle attività di supporto psicologico di tutta l'azienda, ma subito dopo si sono manifestati serissimi problemi relazionali con il dirigente della struttura, il quale voleva che io andassi via da lì.
Ho affrontato un periodo di mobbing durato tre anni, in cui ogni giorno rideterminavo di sorridere e di non cedere al malessere recitando un’ora di Daimoku prima di andare a lavorare. In questo percorso ho dovuto prima di tutto ripartire dalla fiducia in me stessa.
Mia figlia Alice, che all’epoca aveva tredici anni, mi diceva: «Mamma, devi proprio essere importante per il tuo capo perché non fa altro che pensare a te! Per escogitarne così tante di cose cattive nei tuoi confronti deve pensare tantissimo a te…».
Ho capito che non potevo andarmene solo perché era lui a volerlo… dissi a me stessa che me ne sarei andata solo nel momento in cui mi fossi fortificata. Adesso provo molta gratitudine per questa persona perché mi ha fatto sviluppare tanta pazienza e forza.
Dopo tre anni chiesi il trasferimento per avvicinarmi a casa, invece mi assegnarono un posto il doppio più lontano da casa mia, al carcere di Rebibbia… accettai capendo che la mia missione era lì.
Era la prima volta che lavoravo in un carcere, un ambiente estremamente complesso dove interagivano vari attori: agenti di polizia penitenziaria, direttori dei quattro istituti, 2.500 detenuti; tutto governato da tante regole e leggi diverse.
I miei compiti erano moltissimi, compresi fare le relazioni psicologiche, inviarle alla Procura, ai vari tribunali… era davvero tanta roba.
Per i primi quattro mesi giravo ovunque, scrivendo quello che succedeva e osservando le dinamiche tra diritti e doveri, tra i vari enti e attori di quel mondo. Mi resi conto dei soprusi a cui venivano sottoposti i detenuti, che non c'era alcun rispetto dei diritti umani e di quanto fosse difficile per il personale ASL lavorare in quell’ambiente.
Desideravo fare qualcosa anzitutto per migliorare le prestazioni sanitarie che non erano adeguate. Osservando e studiando la situazione feci un’analisi approfondita per capire cosa fare concretamente.
Gli psicologi e i medici potevano fare con i detenuti solo un colloquio ogni tre mesi…
Inutile dire quanto invece ne avessero bisogno, poiché in carcere avere cura dell’aspetto psicologico è davvero importante.
Nel 2008 mi hanno affidato l’incarico di dirigente della struttura sanitaria per le dipendenze di Rebibbia e quindi potevo gestire dei fondi che erano però molto scarsi.
Sviluppando buoni rapporti di fiducia con il direttore sanitario e il direttore amministrativo dell’azienda, sono riuscita a ricevere dei fondi da destinare a nuovi progetti.
Presentai un progetto corredato da motivazioni e dati, e nel 2013 venne approvato.
Prima di allora solo io lavoravo a tempo pieno, tutti i miei colleghi avevano un contratto a tempo parziale, ma grazie a questo progetto hanno potuto aumentare le ore di lavoro e il servizio ha cominciato a funzionare meglio, tanto che le liste d’attesa per i colloqui terapeutici si erano ridotte quasi a zero e i detenuti erano più soddisfatti.
Nell’ambito del progetto che avevo proposto ho riorganizzato tutte le procedure dei percorsi di salute, rispettando le differenze dei quattro istituti e delle varie tipologie delle persone ristrette. Scrissi tutte le nuove procedure, con molta cura.
Nel 2015 una delegazione dell’Agenzia delle Nazioni Unite è venuta a fare un'ispezione per valutare il trattamento dei detenuti e vedere se rispettavamo le Convenzioni internazionali.
Quando sono arrivati gli ispettori delle Nazioni Unite (senza preavviso) hanno fatto il giro di tutti gli ambulatori e sono rimasti letteralmente a bocca aperta chiedendomi poi di inviargli le procedure che adottavamo.
Con mio grande stupore mi contattarono ufficialmente per informarmi che l’anno successivo sarebbero state presentate le procedure a New York, nella sede delle Nazioni Unite, a tutti i Paesi membri, come modello positivo da adottare! E ciò è avvenuto il 18 aprile 2016.
Per me è stato un grande onore, un riconoscimento degli sforzi che avevamo fatto tutti insieme noi operatori sanitari.
Nel 2020 sono andata in pensione e avevo il timore che il progetto di aumento delle ore non venisse riconfermato, anche perché era un progetto che bisognava presentare ogni anno per la conseguente approvazione. Prima di andare in pensione ho fatto la richiesta agli organi superiori per la stabilizzazione delle ore aggiuntive.
A distanza di quasi due anni e mezzo, una ventina di giorni fa, mi hanno telefonato alcuni colleghi ringraziandomi perché hanno riconfermato tutto il progetto e hanno fatto il contratto a tempo indeterminato per queste ore aggiuntive.
Cosa dire? Sono molto contenta del valore che siamo riusciti a creare e che rimarrà nel tempo…
Un accenno lo voglio fare anche riguardo a mia figlia, perché è stato un rapporto pieno di amore ma difficile, fino al post adolescenza… lei ha sofferto molto, e io con lei. Anche lei ha iniziato a praticare il Buddismo quando aveva diciotto anni. Dal nostro amore reciproco è nata la voglia di migliorarci e ognuna ha rivoluzionato la propria vita, partendo ognuna da se stessa: è ciò che nel Buddismo si chiama “rivoluzione umana”, ovvero una trasformazione interiore profonda che ci ha portato a creare un rapporto meraviglioso, di profonda stima reciproca.
All’età di 61 anni, dopo alcune relazioni che non sono andate, ho incontrato un uomo, vedovo, con il quale convivo serenamente, ha due figli coetanei di mia figlia e posso tranquillamente dire che abbiamo una bella famiglia armoniosa.
Sono profondamente grata alla pratica buddista perché mi ha permesso di tirare fuori tutte le mie capacità e potenzialità, perché noi donne ne abbiamo davvero tante! Solo che c'è sempre qualche vocina interiore che ci fa credere che non è vero.
Dobbiamo avere il coraggio di osare, e andare oltre le difficoltà e gli ostacoli che incontriamo.
Nel mio percorso a un certo punto ho sentito chiaramente che c'era una possibilità anche per me.
Prima di praticare il Buddismo, la mia tendenza era di criticare gli altri senza guardarmi dentro, mi svegliavo ogni giorno con un senso di angoscia chiedendomi se ce l’avrei fatta a essere una buona madre, una buona psicologa… tutto da sola con una bambina piccola.
Ho imparato a ripartire sempre da me stessa, coltivando la fiducia nel potenziale che si può far emergere per affrontare anche situazioni non prevedibili, che ci permette di perseverare nei nostri obiettivi e avere sempre la speranza che le cose possono cambiare in meglio.
Oggi vorrei decidere nuovamente insieme a voi di non smettere mai di cercare dentro di me la consapevolezza del mio potere di agire e di creare cambiamenti positivi, sia nella mia vita sia nell’ambiente intorno a me.
E per concludere vorrei condividere una frase del maestro Daisaku Ikeda che mi ha sempre incoraggiata:
«Quando la nostra determinazione interiore cambia, ogni cosa inizia a muoversi in quella direzione. Nel momento in cui prendiamo una decisione profonda, ogni nervo e fibra del nostro essere si orientano verso la realizzazione di quell’obiettivo o desiderio. D’altro canto, se pensiamo “non ci riuscirò mai” allora ogni cellula del nostro corpo si ritroverà priva di speranza e abbandonerà la lotta. La speranza in questo senso è una scelta. È la decisione più importante che possiamo prendere» (La speranza è una scelta, Esperia, pag. 4)