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7 marzo 2024

“Tutte e tutti contro la violenza di genere”

In occasione dell’8 marzo, Giornata internazionale della donna, pubblichiamo alcuni interventi della conferenza “Tutte e tutti contro la violenza di genere” che si è tenuta al Centro culturale di Roma il 26 novembre scorso. Nel corso della conferenza sono stati presentati due progetti sostenuti con i fondi 8×1000 della Soka Gakkai italiana nell’ambito del contrasto alla violenza di genere: Reama di Fondazione Pangea e Maschile Plurale

immagine di copertina

di Francesca Filippi, coordinatrice nazionale Area Protection di Fondazione Pangea

Mi occupo di violenza contro le donne da quasi vent'anni, è la mia vita, la mia passione culturale, emotiva e umana.
Fondazione Pangea, grazie al sostegno dei fondi 8x1000 della Soka Gakkai italiana, ha un progetto importante che sostiene uno sportello antiviolenza nazionale, una casa rifugio per vittime di violenza a grave rischio di vita e una rete nazionale, la rete Reama, che si estende in tutta Italia e coinvolge diversi soggetti, non soltanto molteplici case rifugio, centri e sportelli antiviolenza, ma anche donne e uomini.
Negli ultimi dieci giorni noi operatrici abbiamo dovuto sopperire a un'infinità di richieste allo sportello nazionale. Abbiamo avuto un boom di chiamate dopo l’evento drammatico di Giulia Cecchettin, che ci ha messo a dura prova e ha richiesto un enorme sforzo.
L'aspetto che avevamo già notato nell'ultimo anno e che negli ultimi mesi si sta evidenziando ancora di più è l'abbassamento dell'età delle ragazze che ci chiamano. Questo è un dato fondamentale perché ha a che fare proprio con il tema della cultura.
Le ragazze ci chiamano e si aprono due possibili scenari. Uno è il caso evidente: “Sono una ragazza che ha un fidanzato che non mi fa vivere. É sotto casa e fuori dall'università”. C’è stato probabilmente già qualche episodio che conclama la violenza.
Ma quello che mi ha colpito molto è che ci scrivono anche ragazze che hanno dei dubbi sul fatto di essere o meno vittime di violenza. Si chiedono se è violenza quello che gli è accaduto.

Credo che sia in atto un processo culturale molto complesso, perché da una parte le giovani generazioni vivono una libertà raccontata. Le ragazze giovani sono libere di viaggiare, di spostarsi, di studiare all'estero, di comunicare con tutto il mondo. Ma d'altra parte questa libertà è come se fosse qualcosa di molto esterno. Quando subentra la vita privata diventa un altro piano e hanno molti dubbi su quello che stanno subendo.
Questo mi fa pensare a quanto può essere fondamentale il tema della prevenzione, della diffusione della cultura della libertà e di ciò che effettivamente è violento. Da qui l'educazione.
Pangea fa educazione e prevenzione.
Accogliere una ragazza, più o meno giovane, e dirle che ciò che le sta accadendo è violenza, significa prevenire, impedire che muoia e formarla.
L'altro aspetto molto importante che sta accadendo è che ci chiamano le amiche delle vittime di violenza, cioè coloro che vedono, hanno paura e si domandano come intervenire, se effettivamente è il caso di intervenire. Tantissime vittime dell'ultimo anno erano molto giovani, come ad esempio Giulia Cecchettin.
Poco tempo fa abbiamo ospitato in casa rifugio una ragazza italiana giovanissima, con una bimba di tre mesi. È stata brava perché al primo episodio forte di violenza ha deciso di fuggire. È stata brava a percepire che quello che subiva effettivamente era violenza, ma soprattutto è stata molto brava ad avere chiaro che voleva per sua figlia qualcosa di molto diverso.
Grazie a questo progetto, grazie alla Soka Gakkai che lo ha finanziato, abbiamo potuto rafforzare percorsi di valutazione del rischio, un tema cruciale affinché le donne possano rivolgersi a chi il meccanismo della violenza lo conosce.
Noi contrastiamo “la soluzione famiglia”: “Ho chiesto aiuto a mia mamma”, “Sono andata a dormire dall'amica”, ecc.
La valutazione del rischio deve essere fatta da operatrici che questo lavoro lo sanno fare perché ha a che fare con un grandissimo tema che è quello di intervenire sulla violenza “ante”. Ante per me significa ante mortem. Valutazione del rischio significa vita, futuro.

Perché resisto da così tanto tempo nel fare questo lavoro? Perché ho una fortuna enorme: quando accolgo una donna io vedo il futuro e il cambiamento. Le operatrici costruiscono un cambiamento culturale con la donna che accolgono, con i suoi figli e le sue figlie. Ciò significa una cosa enorme, culturalmente significa spezzare la spirale della violenza generazionale e costruire una generazione libera da un concetto di possesso e di violenza. Intervenire non dopo che è accaduta una violazione dei diritti umani, ma prevenirla.
Costruire un futuro senza violenza è molto complicato. Credo che questa società stia affrontando un momento molto difficile da questo punto di vista. Vi parlo di una cosa personale, io ho un figlio maschio, ha diciassette anni e mezzo; un mese fa mi ha fatto sentire una canzone di un famoso cantante. È stata scritta da tre autori, due uomini e una ragazza. La prima frase della canzone dice: “Ti ammazzo solo perché parli con lui”.
Mi piacerebbe pensare di aver educato un figlio che diventerà rispettoso delle donne, un uomo diverso, però vive in una società che gli dice delle cose e non posso avere la certezza di quel che sarà. Quello che posso sperare è che la cultura in cui vive non produca più una cosa del genere.
“Ti ammazzo solo perché parli con lui” è una canzone in vetta alle classifiche ed è la colonna sonora di tutti i video di Tik Tok dell'ultimo mese…
Contrastare tutto questo è molto complesso perché ci muoviamo su molti piani, sociologici e antropologici, ma posso affermare con certezza che la competenza, lo studio e la visione del futuro e del presente, nel rispetto dei diritti umani e nella diffusione di un concetto di pace delle relazioni umane, è l'unica strada possibile.
L’unica strada che abbiamo davanti è sviluppare competenza delle donne su ciò che vivono, e sviluppare competenza riguardo agli uomini per ciò che producono e spesso subiscono… Mio figlio era arrabbiato per questa canzone e credo che, come lui, ci sono molti altri ragazzi che a diciassette anni si arrabbiano per quello che vedono e sentono intorno a loro.
È una grossa battaglia culturale che dobbiamo fare individualmente e trasformarla sempre di più in una battaglia collettiva, trasversale dal punto di vista dei generi. Non c'è altra speranza... Posso dire che quando noi accogliamo le vittime di violenza e arriviamo alla fine del progetto all'interno di una casa rifugio, quando vedo quei bambini e quelle bambine che escono dai nostri spazi, so che abbiamo fatto un pezzo di storia diversa e questo per me è l'unico frangente possibile che mi permette di andare avanti in questo lavoro.


di Alberto Leiss, dell’associazione nazionale Maschile Plurale

Nella vita ho fatto il giornalista, adesso sono un felice pensionato e posso dedicarmi anche ad altre cose. Parlo di Maschile Plurale che inizialmente era formato da due o tre gruppi informali, iniziati negli anni ‘90, formati da uomini più giovani di me.
Nel ‘68 avevo diciotto anni e incontravo molti amici più giovani che avevano provato a riflettere su se stessi e a rispondere al grande cambiamento che le donne già da alcuni decenni avevano cominciato a produrre in questo paese, come in tutto il mondo.
Questa rete di amicizia maschile è diventata poi l'associazione Maschile Plurale, costituita da gruppi di uomini che in varie città d'Italia hanno l'abitudine di incontrarsi, di parlare e riflettere sul proprio modo di reagire alla relazione.
A un certo punto abbiamo affrontato il tema della violenza. Per liberarci a nostra volta di pregiudizi, eccessi, stereotipi che una certa cultura maschilista e patriarcale, in qualche misura impone anche ai maschi.
La consapevolezza di questa ricerca ci ha portato ad affrontare la questione della violenza di genere e nel 2006 abbiamo scritto un testo che diceva una cosa banale, ma che non era mai stata detta, ovvero che la violenza contro le donne la esercitiamo noi uomini.
Fino a quel punto – e ancora oggi è così - erano soprattutto le donne a occuparsi della violenza che subiscono, mentre sarebbe giusto che se ne occupassero prima di tutto i maschi che la esercitano.
La cosa non riguarda soltanto coloro che agiscono violenza, ma tutti quelli che condividono in qualche misura una cultura che genera la violenza, e quindi nessuno può tirarsi fuori.
Il testo ha avuto un certo successo, ci siamo accorti che centinaia di uomini in Italia si riconoscevano in questo desiderio di mettersi in gioco.

Da qui è nata l’associazione Maschile Plurale che è impegnata su vari aspetti, soprattutto quello della ricerca di un modo diverso di rapportarsi sia tra uomini sia tra uomini e donne, ma anche tra persone che hanno altre idee della propria sessualità e della propria relazioni con gli altri.
Alcuni di noi lavorano da anni in queste esperienze e cercano di interloquire con gli uomini che hanno agito violenza e si mettono volontariamente in un percorso, oppure uomini che sono stati mandati dalla magistratura perché sono già in percorsi giudiziari.
Prima di tutto c'è bisogno di una grande battaglia culturale, al di là delle manifestazioni singolari che possono essere naturalmente molto complicate e devono essere affrontate dalle persone che hanno le competenze per farlo.
Con l’obiettivo di fare una grossa battaglia culturale rivolta soprattutto agli uomini, abbiamo proposto questo progetto alla Soka Gakkai italiana, che lo ha finanziato con i fondi 8x1000 (per approfondire il progetto clicca qui).

Il progetto, che abbiamo chiamato “Contrastare la violenza di genere, trasformando la cultura che la produce” si propone di agire su vari livelli.
Un livello riguarda la comunicazione sociale istituzionale destinata agli uomini, perché è molto importante trovare le modalità di investire nei media, giornali, tv e social per arrivare a tutti.
Un altro livello riguarda le scuole, per elaborare incontri e partecipare a iniziative che cercano di combattere la cultura e i pregiudizi nelle relazioni tra uomini e donne, parlando con ragazzi e ragazze. Si tratta di elaborare delle linee guida attraverso le esperienze che già sono in corso.
Inoltre abbiamo l'obiettivo di realizzare una vera e propria campagna di sensibilizzazione destinata agli uomini. Anche qui c'è molto da lavorare, perché si tratta di inventare qualcosa di nuovo, che abbia delle possibilità di essere percepita, ascoltata, delle possibilità di interlocuzione spostando le campagne che in genere sono molto incentrate sul far vedere le vittime, le donne che subiscono.
Invece dobbiamo mettere al centro l'uomo che agisce la violenza, e quindi spostare l'attenzione su chi effettivamente agisce.
Un'altra questione è lavorare con seminari curati da realtà che operano a contatto con gli uomini che hanno agito violenza.
Affrontiamo anche la questione di come gli aspetti della violenza uomo/donna si manifestano in culture diverse, nel mondo dell'immigrazione.
Infine ci occupiamo di realizzare un confronto tra i gruppi di maschi che cercano un modo diverso di parlare tra loro rispetto a quello che ci può essere sul posto di lavoro, al bar, nella squadra di calcetto e via dicendo.
Questo terribile femminicidio [di Giulia Cecchettin, n.d.r.] di cui si è parlato nelle ultime settimane e la coincidenza con la manifestazione del 25 novembre [Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, n.d.r.], ha prodotto qualcosa che non era mai successo. Intanto un'attenzione pubblica altissima… Per la prima volta tanti uomini – giornalisti, intellettuali, scrittori – hanno detto pubblicamente: “Sì, questa cosa mi riguarda. Ogni volta che una donna viene percossa o uccisa, mi tocca, mi parla, mi riguarda”.
Questo progetto di Maschile Plurale è uno strumento molto importante per far sì che questa discussione pubblica, ad esempio sul patriarcato e sulla cultura maschilista, possa portare all’attenzione tanti punti condivisibili. Il problema è cogliere questa occasione e non lasciarsela scappare.
In una recente discussione tra amiche e amici, c'era una donna impegnata in un’associazione che si occupa in modo particolare degli stupri che sistematicamente avvengono nei conflitti.
Ha dato delle cifre pazzesche di centinaia di migliaia di questi episodi, è un'associazione che in tutto il mondo cerca di far sì che le donne che subiscono violenze atroci e che coinvolgono intere comunità, siano capaci di reagire e non soccombere al male che viene fatto. Naturalmente pensiamo tutti che la guerra non vada mai fatta, ma ciò non significa che non ci sono conflitti nelle relazioni tra persone. Ma un conto è confliggere senza pensare all'eliminazione simbolica o materiale, cioè all'uccisione del soggetto con cui confidiamo, un'altra è non considerare la vita sacra e non reagire mai con la violenza. Credo quindi che questo possa essere un altro tema di confronto.


di Mattia Scorzini, gruppo “Maschile in gioco” di Roma

Il gruppo “Maschile in gioco” di Roma fa parte della rete Maschile Plurale, che si potrebbe definire un gruppo di autocoscienza, usando un linguaggio preso dalla riflessione femminista. Vale a dire un gruppo all'interno del quale ci si pone in modo tale da riflettere collettivamente su ciò che si agisce e si mette in atto all'interno della propria vita.
Questo aspetto della riflessione, questo legame costante che si dà tra dimensione pubblica e privata dell'agire è molto importante da sottolineare, soprattutto di fronte a grandi prese di posizione che abbiamo visto negli ultimi giorni.
Importantissime anche le prese di parola da parte del mondo maschile nei confronti della violenza di genere, cercando sempre di ricordare e di porre l'accento su come viviamo una dimensione privata dei rapporti all'interno della quale si esercitano comportamenti di cui spesso è difficile prendere atto.
La manifestazione del 25 novembre contro la violenza di genere è stata molto toccante per me… vedere la quantità di persone che hanno scelto di aderire alla marcia mi ha portato a riflettere sul fatto che certi tipi di comportamenti, di prese di posizione, esigono parallelamente il tentativo di trasformare se stessi.
Credo che un discorso come quello sulla violenza di genere non possa essere portato avanti dalla parte maschile senza una costante riflessione su ciò che siamo, in quanto uomini, e sul modo in cui ci comportiamo.
Questa dimensione trasformativa che il discorso sulla violenza di genere ci porta ad attuare nei confronti di noi stessi, in quanto uomini, secondo me è forse la cosa più importante. Altrettanto importante è poi la dimensione pubblica di presa di parola, di distacco, di critica pubblica, politica rispetto a determinati atteggiamenti.
Il gruppo “Maschile in gioco” è un gruppo di autocoscienza, dove ci sono uomini che hanno una coscienza molto sensibile, nata dal costante rapporto con il mondo della riflessione femminista, ed elaborata a livello teorico. Un gruppo di uomini che attua costantemente un lavoro di dialogo. È uno spazio in cui ci si reca due volte a settimana per riflettere collettivamente su ciò che a livello personale si attua in tema di dinamiche di genere e di modelli di genere, di modelli maschili.
La riflessione autocoscienziale è fondamentale per portare coerentemente il discorso sulle dinamiche di genere all'interno della sfera pubblica.

Mi sono avvicinato a questo gruppo l'anno scorso, a marzo, in seguito a una serie di riflessioni che sono nate parlando con delle amiche. Un giorno una mia amica mi chiese: “Ma tu ti diresti femminista?”
Io ho pensato che è molto difficile per un uomo essere femminista; posso anche dirlo ma questa parola mi attraversa, ha davvero un esito trasformativo su di me?
Noi uomini siamo stati abituati ad essere messi al centro della società, al centro del pensiero. Il fatto che si dica “uomo” per riferirsi all'essere umano, il maschile sovraesteso, e via dicendo…. Spesso e volentieri, quando riflettiamo abbiamo degli angoli ciechi che si illuminano soltanto attraverso la riflessione interpersonale, non si riflette mai da soli, ma sempre collettivamente.
Mi piacerebbe che tanti di quei ragazzi coetanei che erano presenti alla manifestazione del 25 novembre riuscissero a entrare in contatto con questa dimensione della riflessione, senza la quale secondo me non si può portare avanti un discorso di questo tipo.


di Francesco Sangregorio, vice responsabile nazionale del Gruppo giovani uomini della Soka Gakkai italiana

È molto difficile affrontare tematiche come quelle trattate nella conferenza di oggi senza confrontarsi con il pericolo di cadere facilmente nella retorica e nella banalità. Credo che il modo più efficace per evitarlo sia rimanere ben ancorati alla realtà quotidiana che coinvolge il vissuto di tutte e tutti noi, senza generalizzare. Come giovane uomo, ho pensato che sia più naturale e corretto rivolgere l’attenzione del mio intervento sul lato maschile e sulla mia esperienza personale riguardo al tema di oggi.
Nella mia famiglia di origine non ho vissuto direttamente situazioni di violenza di un uomo verso una donna, ma ho visto cosa può avvenire nella vita di figli maschi che hanno vissuto violenze di un padre nei confronti della propria madre.
Le conseguenze e l’influenza diretta che tali violenze hanno sulla loro crescita e sul loro modo di costruire le proprie future relazioni, non solo amorose.
Lo scopo del Buddismo di Nichiren Daishonin e della Soka Gakkai è realizzare un mondo di pace attraverso la realizzazione piena della felicità di ogni singola persona, unica, insostituibile e perfettamente capace, così com’è, di esprimere il proprio infinito potenziale.
Da questo punto di partenza, sostenere concretamente progetti come quelli oggetto degli approfondimenti di oggi, rivela una volontà ben precisa che non è solo contrastare la violenza contro le donne, ma è favorire la costruzione di un mondo di pace lottando per eliminare le cause che fanno soffrire le persone concentrandosi sul favorire il miglioramento del singolo individuo.
Il Buddismo quindi riporta tutto sul piano della preziosità della vita della singola persona. Questa è degna del massimo rispetto, quindi non può essere violata in alcun modo.
Parlando di relazioni sentimentali, vorrei condividere con voi le parole del maestro Daisaku Ikeda che mi hanno spesso incoraggiato sul comportamento corretto che un uomo dovrebbe avere nei confronti di una donna e che ribaltano la prospettiva di divisione che c'è normalmente nella società, cioè la figura maschile come forte e la figura femminile come più debole. Ikeda scrive:

«Mi farebbe piacere vedere gli uomini più cortesi e più attenti verso le donne. Gli uomini dovrebbero sempre ricordarsi di rispettare le donne, sostenendole nel migliore dei modi. Piuttosto che dipendere dalle donne come dei bambini, dovrebbero diventare forti, compassionevoli e adulti, in modo da prendersi a cuore la felicità delle loro compagne per tutta la vita. Questa è la qualità che gli uomini dovrebbero coltivare ed è anche l’espressione del vero amore.Ai ragazzi vorrei anche dire: pensate al momento nel quale avrete anche voi una figlia. Se lei si innamorasse, come vorreste che fosse trattata? Se non riuscite a immaginare quel tipo di relazione, allora non siete ancora pronti per amare” (Amore e amicizia, pag. 56)


di Cristina Canestrelli, vice segretaria nazionale del Gruppo donne della Soka Gakkai italiana

Credo sia importante affermare ancora una volta che la violenza di genere è una violazione dei diritti umani, un ostacolo allo sviluppo, all’uguaglianza e alla pace.
Per il maestro Daisaku Ikeda è stato un argomento centrale, tanto da portarlo a nominare questo secolo, il secolo delle donne.
Egli considerava il potenziale delle donne un capitale per l’umanità che la cultura della violenza tiene bloccato e riteneva urgente liberarlo, non solo per le donne ma per tutta le persone, per il bene dell’umanità. Un capitale che andrebbe declinato con sempre maggiore energia e partecipazione in tutti i processi di pace e costruzione di una cultura di coesistenza pacifica.
In questi giorni il caso di Giulia Cecchettin ha portato a maggior luce la complessità della violenza sulle donne, che si dipana non solo nelle mura domestiche, nelle relazioni affettive, ma in tutta la nostra cultura fondata sul patriarcato che pervade ogni ambito della nostra società, che ce ne accorgiamo o no… Non è un fatto italiano o europeo, è una questione che interessa tutte le culture, è un fatto mondiale.
È a partire da questa consapevolezza che nella Proposta di pace del 2018 Ikeda affronta la questione dell’uguaglianza di genere e dell’empowerment delle donne in relazione agli Obiettivi di sviluppo sostenibile arrivando a considerarli non solo uno dei diciassette obiettivi, ma la chiave culturale per realizzarli tutti.
Egli considerava la violenza sulle donne il frutto di una visione generata da secoli di disprezzo verso la vita che tutt’ora persiste e si manifesta nel desiderio da parte di alcuni uomini di dimostrare la loro autorità, il loro desiderio di potere.
C’è ancora tanto da fare per assicurare che i valori e la dignità della vita vengano rispettati, e siamo determinate e determinati a lavorare affinché possa compiersi il cambiamento sociale che il rispetto per questi valori esige.
Ringrazio tutti gli ospiti e tutte e tutti coloro che hanno preso parte all’evento di oggi, per questo tempo insieme che deve servire ad accrescere la consapevolezza personale che ognuno e ognuna può essere agente di un cambiamento, che ogni persona può fare la differenza. E vorrei esprimere la determinazione che il dolore legato alla perdita di Giulia e di tutte le donne e le giovani donne vittime di violenza e femminicidio, non resti solo sofferenza, ma si trasformi in una grande forza e speranza in grado di trasformare il presente e il futuro.

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