Parlando di sostenibilità, non possiamo non parlare di ciò che sta succedendo in Emilia Romagna. Qual è il ruolo della crisi climatica in questa alluvione che sta causando danni, morti e tantissimi disagi?
Il rischio che si corre in questo dibattito è quello di tenere i temi separati, un po’ come si fa a scuola con le diverse materie. In realtà è tutto interconnesso. Anzi, parliamo di una forte interdipendenza. La crisi climatica impatta in termini di frequenza e intensità di questi fenomeni e va a sommarsi all'incuria del territorio. Una cementificazione eccessiva porta una zona a soffrire maggiormente di fenomeni che oggi sono, appunto, estremi nel numero di volte in cui accadono, ma anche nell'intensità. In questi senso possiamo parlare di fenomeni climatici estremi.
In Emilia Romagna abbiamo visto piovere in poche ore così tanta acqua come non era piovuta per mesi, questo è un fenomeno estremo.
Come detto, se le condizioni pregresse sono fragili, allora il cambiamento climatico innesca una spirale negativa, si vanno poi a calcolare ingenti perdite, anche in termini di vite umane, alle quali potremmo mettere un argine attraverso azioni di adattamento preventivo, una attenzione sempre maggiore alla protezione civile, investimenti nei sistemi di allerta.
Parlare di clima è anche parlare di come prevenire perdite e danni, in un mondo in cui il cambiamento climatico va mitigato, ma c’è già.
La comunità internazionale, dagli anni ‘90, si sta chiedendo cosa potrebbe fare per mitigare o prevenire il cambiamento climatico. Nel 2015 gli accordi di Parigi hanno stabilito la soglia di 1,5 gradi come tetto all’innalzamento medio della temperatura alla fine del nuovo secolo. Dagli anni ‘90 a oggi cos’è cambiato e a che punto siamo?
La nostra mente non è programmata per percepire come pericolo qualcosa che non si vede. Non a caso gli accordi internazionali stanno vivendo un'accelerazione solo negli ultimi anni. E non a caso nell'ultima Cop 27 si è vista l'approvazione anche di un fondo a compensazione di perdite e danni, proprio perché cominciano a vedersi fisicamente queste perdite anche a livello internazionale, non più solo nel Sud del mondo, ma anche in Europa, nel Nord sviluppato, nel Nord ricco. E questo, è triste dirlo, muove anche questi paesi. Già dagli anni ‘80 c'erano studi che identificavano la correlazione tra emissioni di CO2 nell'atmosfera e cambiamenti climatici. Si cominciava a parlare di futuri fenomeni estremi. Oggi siamo già nell'epoca dei fenomeni estremi. C'è chi dice che il processo internazionale multilaterale sia troppo lento, ma è l'unico che abbiamo a disposizione per parlare tutti insieme di un tema che è necessariamente globale. Quindi dobbiamo tenercelo caro e lavorare al meglio in quel contesto.
Ci sono ancora tantissimi passi da fare… Ma quali sono gli scenari globali a cui ci dobbiamo preparare nel caso in cui non si facessero gli sforzi necessari per ridurre le emissioni e mantenere l'aumento della temperatura entro il grado e mezzo?
La comunità scientifica internazionale ci ha preparato a degli scenari che parlano di un pianeta Terra diverso. Già oggi viviamo in una terra diversa da quella di 20, 30, 50 anni fa. Sarà un pianeta diverso, mediamente più caldo, caratterizzato dai fenomeni estremi di cui parlavamo prima. Dovremo in un certo senso abituarci all'aumentare di questi eventi, ma fino a che punto? Fino a quale limite? Qui sta il ragionamento sul bloccare o arginare il più possibile i cambiamenti climatici e capire quanto vogliamo che il nostro mondo cambi quella direzione tracciata da 150 anni di sfruttamento delle risorse da parte delle nostre economie fossili. A livello internazionale inevitabilmente si va prefigurando un qualcosa di nuovo nella storia dell'umanità, cioè una governance dove tutti i paesi provano a prendere decisioni comuni tramite le Nazioni Unite. Questa impostazione richiede tempi lunghi ma, forse, adesso finalmente il processo sta accelerando, nonostante tutto. Perché per agire servono risorse finanziarie, tecnologiche, anche intellettuali, e dobbiamo tener conto che ci sono paesi che non hanno le università, il know how o le tecnologie necessarie. Per questo l'accordo di Parigi del 2015 dà un obiettivo unico per tutti. Inoltre chiede a ogni paese di fare i “compiti a casa” e di creare la solidarietà dal Nord verso il Sud del mondo. Sta proprio a noi, responsabili storici del Nord industrializzato, fare il primo passo e massimizzare la solidarietà.
Infatti, un'altra questione è la sostenibilità, anche economica e sociale, di questa transizione, che comunque ha un costo soprattutto per quei Paesi che sono in via di sviluppo, quei paesi dipendenti dai combustibili fossili, o quei Paesi che da soli non hanno gli strumenti da soli per poterli affrontare.
Se si parla di sostenibilità dei costi, basti pensare a quelli che sono i possibili danni e relativi futuri costi che potremmo avere davanti nei prossimi 20, 30, 50, 100 anni. I costi del fare prevenzione oggi rispetto a quelli di sostenere una perenne emergenza domani non sono neanche paragonabili. Tuttavia soltanto i soldi non bastano, ci vuole anche la tecnologia, ci vuole la scienza. Pensiamo che molti paesi del Sud del mondo, piccoli paesi insulari, che all'interno dei negoziati internazionali dell'Onu spesso sono rappresentati da consulenti europei perché non hanno persone da mandare o non hanno quel sufficiente bagaglio scientifico per portare i propri dati e le proprie considerazioni. Ci vuole anche quello che in inglese si chiamerebbe una capacity building, che prevede la costruzione solidale di capacità e competenze. Per poter affrontare questo problema tutti insieme.
A livello di emissioni e di impatto ambientale, sicuramente l'industria ha un ruolo predominante. Viene da chiedersi quale può essere invece l'impatto di un singolo individuo che di per sé è minore rispetto all'entità dei danni causati dalle grandi emissioni delle industrie. Insomma, quale ruolo gioca l'individuo?
Bisogna uscire dal pensiero per il quale c'è l'azione individuale da un lato e l'azione dei governi da un altro. Le due cose devono stare insieme. Anche perché i governi, soprattutto nei regimi democratici, inevitabilmente si reggono sulla domanda e sull'offerta politica generata da ciò che i cittadini pensano. Quindi, soprattutto nei nostri Paesi, è fondamentale partire dalla propria vita, dalla propria casa, dalle proprie relazioni, dalle azioni anche piccole, per creare una comunità che compie azioni che si riverberano inevitabilmente sui programmi politici in termini di aspettativa. Lo abbiamo visto anche nelle ultime elezioni in Italia, dove quasi tutti i partiti hanno parlato di cambiamento climatico per la prima volta nella storia delle elezioni italiane. A livello internazionale, a livello di governi, a livello di Nazioni Unite o di Unione Europea, serve un impegno forte per abbattere le emissioni dei settori più difficili da decarbonizzare, come quelli dell’acciaio, del cemento, dell’aviazione. Il piano individuale e quello governativo devono procedere di pari passo in ogni caso, altrimenti stiamo sbagliando approccio, da una parte o dall’altra.
Alcuni studi dell'Università di Stanford affermano che, facendo un modello grazie all'intelligenza artificiale, anche se si riducessero le emissioni di CO2, non riusciremmo comunque a rientrare nei parametri stabiliti dall'Accordo di Parigi. Ma siamo veramente spacciati o ce la possiamo ancora fare?
La soglia stabilita dall’Accordo di Parigi non è una questione di vita o morte, è semplicemente una soglia tollerabile percepita dalla comunità scientifica rispetto a un mondo altrimenti troppo diverso da quello che conosciamo per la vita degli esseri umani, degli animali e della natura. Non siamo del tutto spacciati se i paesi seguono ciò che hanno scritto nelle loro promesse nazionali, le superano tramite le revisioni quinquennali e mettono in atto tutte le misure previste dagli accordi multilaterali già esistenti. Pensiamo all'accordo sul metano tra Unione europea e Stati Uniti, per esempio. Inoltre, dire che siamo spacciati può essere una scusa per non agire. Lo studio di Stanford guarda in una direzione, con grande realismo, ma altri studi ci dicono che forse ancora ce la potremmo fare, se davvero mettessimo in campo tutto il potenziale esistente. Sulla soglia di un grado e mezzo stabilita a Parigi disponiamo di tutte le indicazioni tecniche per centrare l'obiettivo. È la prima volta che possiamo programmare una rivoluzione, ci viene detto come farla e, per ora , non lo si fa. Adesso serve il serio impegno dei governi.
La Soka Gakkai italiana, con la campagna Cambia io Cambia il mondo sta cercando di sensibilizzare le persone comuni a questo cambiamento che parte dal singolo individuo, a sentirsi protagonista. In che modo possiamo fare la differenza, concretamente?
Ogni individuo, come dicevamo prima, può davvero generare un cambiamento a partire dalla sua quotidianità. Se vuole avere un impatto maggiore può entrare in un'associazione, può entrare in un movimento, può entrare in una comunità di pensiero religiosa, può attivarsi in politica. La nostra è un’associazione fatta da giovani e da giovani esperti che, per esempio, tramite un lavoro di coordinamento con altre organizzazioni, nel 2015 ha fatto aggiungere un paragrafo sull'equità intergenerazionale nell'Accordo di Parigi. Non è banale in un negoziato con 196 delegazioni di Stati che ragazzi e ragazze riescano a cambiare il testo di un accordo. Ma può succedere, lo vediamo ogni anno con una crescente inclusione dei giovani e della società civile da parte delle Nazioni Unite. Questo è il vero ruolo dei cittadini, significa fare pressione sulla politica affinché si vada in una certa direzione. Nessun politico può evitare a lungo di fare una cosa che tutti i suoi cittadini vogliono, desiderano, fanno.
poco fa ha parlato di equità intergenerazionale, Che cos'è?
Significa applicare un concetto di uguaglianza e pari partecipazione nelle decisioni politiche tra generazioni diverse. Quindi, visto che l'accordo di Parigi parla di soglie limite e obiettivi da qui al 2100, quando noi, che oggi ne stiamo discutendo, saremo probabilmente morti, dovremmo tenere conto di come i nostri figli, i nostri nipoti vivranno gli effetti di quell'accordo e potranno essere inclusi nelle decisioni lungo il cammino.
Qual è il ruolo dei giovani in questa presa di coscienza? In questo movimento da qui ai prossimi cento anni?
Sicuramente quello di lottare per se stessi, e non solo per chi li seguirà, ma anche aiutare le altre generazioni a entrare in questa mentalità che dalla popolazione giovanile è stata pienamente assorbita e fatta propria. Ci vuole l'impegno di tutti. Il ruolo dei movimenti giovanili non è più solo quello di portare il tema all’attenzione, alla ribalta. Questo è già stato fatto, ora però bisogna diffonderlo il più possibile anche tra chi giovane non è.
Italian Climate Network è un'associazione Onlus, nata nel 2011, con lo scopo di affrontare la crisi climatica e assicurare all’Italia un futuro sostenibile. Collabora con diverse associazioni, gruppi locali, aziende e autorità pubbliche per portare il tema dei cambiamenti climatici al centro del dibattito pubblico e dell’agenda politica nazionale.