Abbiamo intervistato Roberto Crestan, direttore area ANME (Rete di Centri medici di eccellenza in Africa) di EMERGENCY e Gina Portella, direttrice del MCU (Coordinamento delle unità mediche) di EMERGENCY, per il progetto “Medicina di eccellenza in Africa”, finanziato con i fondi 8x1000 dell’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai. Il progetto mira ad affrontare la grave mancanza di accesso a cure chirurgiche specialistiche in Africa, creando dei poli chirurgici di eccellenza in Africa, in cui offrire cure specifiche che mancano in questi Paesi per garantire l’accesso al maggior numero possibile di persone di un’assistenza sanitaria gratuita ed equa.
In cosa consiste il progetto “Medicina di eccellenza in Africa”?
Risponde Roberto Crestan, direttore area ANME di EMERGENCY

Il progetto Medicina di eccellenza in Africa è un programma che mira a rispondere ai bisogni di carattere chirurgico-ospedaliero dei Paesi africani in un'ottica di rispetto dei diritti umani e di diritto alla cura.
Ad oggi i Paesi che hanno aderito al programma sono quindici, e siamo riusciti ad aprire due Centri di eccellenza: il Centro Salam di cardiochirurgia in Sudan nel 2007, e il Centro chirurgico pediatrico in Uganda nel 2021.
L’idea alla base del progetto è di creare una rete tra i Paesi africani aderenti al programma e i Centri di eccellenza tramite un Programma Regionale capace sia di trasferire i pazienti da un Paese all'altro, per essere operati presso i nostri ospedali, sia di seguire gli stessi pazienti nel percorso di cura dopo la dimissione quando rientreranno a casa.
Questo approccio ha riscosso un interesse enorme da parte dei Paesi africani, in particolare hanno visto in questo sistema unico ospedaliero, il percorso necessario per raggiungere l'eccellenza medica.
Negli incontri che abbiamo avuto con questi Paesi, sono stati proprio loro a dirci che questo è ciò che mancava in Africa.
Il modello si basa su tre princìpi: equality (uguaglianza), quality (qualità) e social responsibility (responsabilità sociale).
L’uguaglianza prevede la gratuità come condizione essenziale per poter dare l'accesso alle cure, solo attraverso la gratuità si riescono a raggiungere tutti i pazienti.
La qualità deve essere disegnata sulle esigenze del paziente e non sulle logiche di un'industria che mira a fornire una tecnologia sempre più elevata e non implementabile in contesti a basse risorse.
La responsabilità sociale viene rimessa ai governi che scelgono di mettere tra le proprie priorità l'accesso alle cure dei pazienti.
Come si sviluppa la rete regionale di EMERGENCY nelle zone del programma? In che modo collaborate con le autorità locali per garantire la sostenibilità nel futuro del progetto?
La rete si sviluppa grazie all'accordo con i quindici Paesi che aderiscono al programma e che facilitano il movimento dei pazienti affinché possano raggiungere i due Centri.
Sudan e Uganda, dove sorgono i nostri Centri di eccellenza, hanno garantito la gratuità dei visti d'ingresso da altri Paesi, anche da quelli con cui non hanno ottime relazioni diplomatiche.
Tutti si prendono l'impegno di garantire una libera circolazione dei pazienti.
La rete si basa inoltre sulla collaborazione e sul dialogo, EMERGENCY si è seduta al tavolo con ogni Paese firmatario dell'accordo e ognuno di essi ha espresso la richiesta di specializzazione chirurgica più necessaria per il proprio Paese. È stato così che dopo il Centro Salam di cardiochirurgia in Sudan, l’Uganda ci ha proposto di lavorare alla costruzione di un Centro di chirurgia pediatrica. Abbiamo accolto la proposta e siamo partiti disegnando il progetto insieme a loro.
Ideare i progetti insieme è una condizione essenziale perché non possiamo sapere da soli qual è la specialità medica più urgente per il Paese a cui sopperire, senza che sia esso stesso ad indicarcela.
Durante un incontro avvenuto in Uganda a maggio 2022, a cui erano presenti dodici Ministri della Sanità dei Paesi aderenti, ricordo che il ministro ugandese alzandosi e rivolgendosi ai presenti disse: «Abbiamo di fronte un'organizzazione che è riuscita a fare una cosa che noi stiamo provando a fare da trent’anni nel nostro Paese. Dobbiamo credere in loro».
Per far funzionare un ospedale di chirurgia di eccellenza è necessario il coinvolgimento non solo del Ministero della Sanità, ma di tutti quei Ministeri che hanno un impatto sulla funzionalità e operatività della struttura come il Ministero degli Interni per ciò che concerne la sicurezza, il Ministero della Finanza per l'esenzione sull'importazione di merci, il Ministero degli Affari Esteri per la libera circolazione di persone e di merci.
Il contributo dei fondi 8x1000 della Soka Gakkai è molto importante perché sostiene un progetto che rappresenta una grande sfida ovvero quello di portare una chirurgia specialistica e di qualità in Paesi a bassissime risorse che difficilmente potrebbero permetterselo.
Abbiamo ricevuto un enorme supporto da parte dei Paesi africani perché hanno capito l'importanza di questo modello e ci stanno aiutando a portarlo all'attenzione delle organizzazioni internazionali e di altri donatori. Siamo felici che la Soka Gakkai abbia compreso il valore di questo progetto.
Quali sono le principali attività formative mediche-chirurgiche svolte nei Centri di eccellenza di EMERGENCY?
Risponde Gina Portella, direttrice dell'unità medica (MCU) di EMERGENCY

I Centri di eccellenza di EMERGENCY hanno una doppia funzione: quella di curare pazienti e di formare il personale locale perché il Paese diventi indipendente nel tempo.
Nei nostri Centri, infatti, il personale sanitario locale che formiamo ha la possibilità di assistere ad una modalità di cura altamente professionale e questo è già il primo elemento della formazione.
I nostri professionisti affiancano totalmente lo staff locale che vive e lavora nel Paese: infermieri, medici alle prime armi o che stanno già seguendo un percorso di specializzazione più avanzata.
Il nostro obiettivo è che questi professionisti così formati possano garantire la continuità di quel livello di attenzione e di cura verso il paziente.
Le cure che offriamo sono per patologie complesse: ad oggi abbiamo un centro di cardiochirurgia e uno per la cura chirurgica delle patologie congenite dei bambini.
Queste cure nei loro paesi spesso non esistono, perché richiedono una specializzazione più avanzata e non sono assolutamente gratuite.
Quali sono le principali sfide che state affrontando nel contesto di questo progetto?
Le sfide sono tante. Nell'Africa Subsahariana è stato identificato il bisogno di cardiochirurgia per rispondere a una patologia che qui da noi è stata debellata, la malattia reumatica. Il nostro Centro in Sudan, ad oggi, ha garantito interventi chirurgici a cuore aperto a più di diecimila persone.
In questi Paesi tale patologia è endemica, ne hanno bisogno pazienti molto giovani che a causa di un'infezione sviluppano una reazione a livello cardiologico e devono sottoporsi a un intervento chirurgico che richiede il posizionamento di valvole meccaniche. Inoltre, i pazienti devono poter accedere a esami che permettono loro di far continuare a funzionare bene il cuore. La sfida è di poter continuare a seguire i pazienti per tutto il corso della loro vita.
Noi riusciamo a seguirli per più del 90% dei casi quindi, in qualche modo, la sfida medica è stata vinta!
In questo momento c'è una guerra in Sudan, scoppiata nell'aprile del 2023, e l'ospedale si è trovato al centro delle aree occupate dalle forze contrapposte al governo.
È diventato un ospedale di “cardiochirurgia di guerra”, gli approvvigionamenti non sono facili, non si riescono a mobilitare i professionisti che garantiscono le cure mediche. Alcuni professionisti sudanesi sono scappati insieme alle loro famiglie perché il Paese è invivibile. Purtroppo, la guerra ha messo a dura prova la nostra capacità di cura.
Quella che era una sfida già in tempi normali per quel contesto, ora si è trasformata veramente in una battaglia.
La parola “resilienza” che spesso viene applicata a queste situazioni non rende a sufficienza, si è creata più che altro una resistenza da parte di EMERGENCY, da parte dei pazienti, da parte del personale nel cercare di non perdere i pazienti e garantirgli comunque delle cure, oltre quello che stava succedendo fuori.
Il Centro di cardiochirurgia Salam che in arabo vuol dire “pace” negli anni ha curato pazienti provenienti da trenta paesi, oggi alcuni di essi non possono più rientrare in Sudan per i controlli periodici e noi li stiamo seguendo da lontano, nonostante sia un grosso sforzo sul piano logistico, economico e anche emotivo.
C'è un'esperienza particolarmente significativa di pazienti che beneficiano di questo progetto?
Recentemente ho incontrato una giovanissima sierraleonese che è stata curata al Centro Salam in Sudan e che ha potuto continuare a seguire la terapia anticoagulante per la sua valvola meccanica nel nostro ospedale in Sierra Leone.
Con lei abbiamo iniziato un dialogo per consigliarle di avere un controllo su una possibile maternità, perché il rischio di portare avanti una gravidanza nel suo Paese è alto e non è consigliabile con terapia anticoagulante, per giunta con un intervento cardiaco come quello che lei ha sostenuto.
Ero un po' preoccupata per la delicatezza dell'argomento, ma a un certo punto lei mi ha detto: “Grazie a questo intervento adesso sto meglio e ho deciso di adottare una bambina”. Mi sono commossa profondamente.
Questi episodi ripagano gli sforzi delle sfide che portiamo avanti e ci fanno rendere conto dell’importanza del nostro lavoro.