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24 gennaio 2024

Un tributo al maestro Daisaku Ikeda

Clark Strand, Woodstock, New York

Clark Strand è uno scrittore e giornalista americano che si occupa di religione e spiritualità. Ex monaco zen, è stato il primo caporedattore della rivista buddista Trycicle. È anche autore di un libro sulla storia, la pratica e il significato della Soka Gakkai, “Il risveglio del Budda: Una nuova prospettiva per la religione”.

immagine di copertina

Quando la rivista World Tribune mi chiese di scrivere alcune riflessioni sulla mia esperienza con Daisaku Ikeda – su ciò che avevo imparato da lui, come studioso, filosofo e leader del più grande movimento buddista laico del mondo – mi resi conto che non avrei potuto farlo se non avessi parlato di me stesso. La vera grandezza di qualsiasi guida spirituale si misura dall’impatto che ha sulla vita delle persone. Negli ultimi vent’anni ho intervistato centinai di membri della SGI, fra cui praticamente tutti i massimi responsabili del movimento in Giappone, e in ognuno di quegli incontri mi è stata raccontata la storia della loro relazione personale con Daisaku Ikeda. Quella che segue è la mia storia.
Come giornalista specializzato nella storia dei movimenti religiosi non sarei stato in grado di scrivere in modo convincente di Daisaku Ikeda e del movimento che aveva fondato se lo avessi fatto dall’interno. Così all’inizio decisi di non identificami come un membro della Soka Gakkai Internazionale. Nonostante questo ho fatto due viaggi in Giappone per studiare la SGI e ho pubblicato un libro sulla sua storia e il posto che riveste nella religione mondiale e, sempre nonostante questo, mi è stato consentito un accesso giornalistico senza precedenti a Daisaku Ikeda per intervistarlo e avere una corrispondenza con lui nel corso degli anni.
A dire il vero spesso ero un po’ geloso dei miei amici della SGI che potevano chiamare Daisaku Ikeda “Sensei” o “maestro”, e in varie occasioni avrei voluto smettere di scrivere della SGI e semplicemente diventare un membro come gli altri. Ma non era possibile farlo e allo stesso tempo dire ciò che andava detto riguardo al presidente Ikeda e ai suoi contributi straordinari al vasto mondo della religiosità. Tuttavia penso che egli avesse capito quali fossero i miei veri sentimenti, anche se non glieli ho mai confessati. L’ho scoperto grazie a una conversazione con un responsabile della SGI-USA a metà degli anni 2000.

Già pochi giorni dopo aver incontrato per la prima volta la SGI, nel 2003, sapevo che non sarei mai riuscito a comprenderne fino in fondo la cultura da osservatore esterno. Era troppo diversa da qualsiasi cosa avessi mai sperimentato in un contesto religioso. Era impossibile cogliere l’esperienza viva del Buddismo di Nichiren senza imparare a fare Gongyo e recitare Daimoku. Avrei dovuto partecipare alle riunioni, avere occasione di conoscere altri membri e studiare a fondo gli insegnamenti non solo da esperto di studi religiosi, ma con l’obiettivo di usarli per trasformare la mia vita.
Ovviamente questo significava ricevere il Gohonzon e diventare, almeno temporaneamente, un membro della SGI. Soppesai attentamente quella scelta e infine decisi che non c’era altro modo. Ero disposto a uscire dalla mia comfort zone di giornalista se era questo che occorreva. Nessun altro dei movimenti religiosi che avevo studiato aveva un progetto credibile per affrontare le crisi del XXI secolo e anzi, più spesso, erano parte del problema. Se la SGI era in grado di affrontare quelle crisi, non valeva forse la pena di correre il rischio? Che altra scelta ci poteva essere? Il mondo era troppo pieno di gravi problemi per stare a cavillare su questioni di neutralità giornalistica.
Qualsiasi membro della SGI può immaginare ciò che accadde. Appena ricevetti il Gohonzon e partecipai a qualche riunione, entrai nel radar del mio capitolo. Nel senso buono, ovviamente, però mi sentivo un po’ sopraffatto dalle richieste: “Volevo che venisse qualcuno a recitare con me?... Non sarebbe stato bello partecipare a più riunioni? … Prendere parte alle attività della SGI non era forse essenziale per la pratica, visto che il punto fondamentale era kosen-rufu?”
Feci del mio meglio per non spegnere l’entusiasmo di nessuno nel diffondere la fede e oltretutto sapevo che quello che mi stavano dicendo era vero. Però, devo averlo accennato a uno dei delegati della SGI che aveva iniziato a venire a casa mia a Woodstock quando avevo cominciato a scrivere articoli sul movimento su quotidiani e riviste nazionali.
Una settimana dopo, un responsabile locale venne a casa mia per dirmi che la SGI e i suoi membri erano disponibili a rispondere a qualsiasi domanda avessi rispetto al movimento, a fornirmi i materiali di studio, le esperienze e tutte le opportunità di dialogo che potevano contribuire alle mie ricerche, ma non mi dovevo sentire obbligato a partecipare ad alcuna attività o a dichiarare pubblicamente la mia adesione alla SGI.
Sentii che il presidente Ikeda aveva capito cosa stavo cercando di realizzare e che mi era stato dato lo spazio per andare avanti con autenticità come giornalista.
Era proprio l’incoraggiamento di cui avevo bisogno e, ripensandoci, mi domando se il presidente Ikeda non sapesse esattamente cosa stavo facendo. Dubito fortemente che avrei continuato a scrivere, come ho fatto, sulla SGI se non avessi avvertito quella comprensione reciproca.
Dopodiché mi misi a fare Gongyo e a recitare Daimoku due volte al giorno con una intensità tale che una volta, in occasione del mio compleanno, la mia bambina mi regalò una targa in legno che aveva realizzato nella classe di arte con sopra un mio piccolo ritratto disegnato a mano, con la bocca aperta e le mani giunte in preghiera. Sotto c’era la scritta “Monaco impazzito che recita!”. Mia figlia sapeva che prima del matrimonio con sua madre ero stato un prete Zen, il che spiega perché avesse scritto “monaco”. La parola “impazzito” era colpa di Daisaku Ikeda che aveva veramente infiammato il mio cuore.
Nel corso degli anni sono molte le cose che ho imparato da Ikeda Sensei. Molte le ho scoperte nei suoi voluminosi scritti sul Gosho, sul Sutra del Loto e sulla storia della SGI, mentre altre ho potuto capirle nei contatti diretti che ho avuto con lui. Ciò che mi aveva colpito di più era il valore pratico della sua saggezza. Una saggezza che reggeva anche sotto esame e non si sgretolava sotto pressione. Una saggezza in grado di resistere per la semplice ragione che fin dall’inizio era nata in mezzo alle lotte. Cosa avrebbe mai potuto sgretolare quella determinazione per la felicità di tutta l’umanità che era stata forgiata sotto il fuoco delle avversità?

All’inizio del mio libro, Il risveglio del Budda, paragonavo la creazione di una tradizione spirituale duratura alla fabbricazione di un vaso di creta. È un processo che si svolge in tre fasi. Dapprima la creta viene sbattuta con forza sul tornio per creare una base solida. Poi la mano del ceramista la gira per darle una forma utile. Infine il vaso viene smaltato e cotto. Se tutto va bene il risultato sarà qualcosa di bello e, auspicabilmente, duraturo. Ma tutto dipende da ciò che accade dentro la fornace. Impiegai questa analogia per descrivere gli anni formativi della Soka Gakkai e l’opera di tutta la vita dei primi tre presidenti.
Tsunesaburo Makiguchi aveva costruito una “base” di fede incrollabile per la Soka Gakkai, rifiutando il supporto governativo allo Shintoismo durante la Seconda guerra mondiale, mentre Josei Toda aveva dato al movimento la sua “forma” moderna specifica. A Daisaku Ikeda toccava la parte decisiva, quella che avrebbe deciso la riuscita o il fallimento, e così la Soka Gakkai fu raffinata dal “fuoco” del dialogo internazionale durante i pericolosissimi anni della guerra fredda.
Fu l’impegno continuativo della SGI per la pace, anche quando la guerra fredda sembrava conclusa, che mi convinse a indagare ulteriormente sul Buddismo di Nichiren. Ma non è questo che me lo faceva apparire diverso dalle altre religioni mondiali. Anche solo nel Buddismo, c’erano dozzine di sette che peroravano la resistenza nonviolenta e alcune di esse incoraggiavano le proteste, i boicottaggi e altre forme di attivismo sociale. Ma la cultura di quei gruppi era quasi sempre complice della violenza intrinseca nella società moderna. Non avevano un modo di resistere a quelle forme di violenza endemica come il razzismo e la disuguaglianza, perché non avevano alcun modo di opporsi ad esse. Ciò che rimane saldo contro la violenza non è l’assenza di violenza… ma la gioia.
La felicità indistruttibile degli individui, coltivata con la fede e con una pratica vigorosa e determinata – quello era l’antidoto all’“illusione fondamentale” che Nichiren diceva essere la causa ultima della sofferenza umana in tutte le sue molteplici forme. Ma solo se veniva trasmessa, come una candela che ne accende un’altra, fino a rendere luminoso tutto il mondo.

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