Nella tua famiglia ci sono molti talenti del calcio, tu a chi devi la tua passione per questo sport?
Sono nato con il calcio nel sangue, ho delle foto di me a un anno e mezzo di età, già con un pallone in mano e i guanti di mio padre.
Allora bastava poco per essere contenti, non c'erano i social, niente cellulari. Il pallone era il filo conduttore, per trovare un amico dovevi scendere in strada e fare una partitella.
Mio nonno André era un giocatore a livello internazionale, un difensore molto famoso nel dopoguerra. Quando fui ammesso in accademia a Cannes i miei genitori non potevano permettersi di pagarmi gli studi, così sono andato a vivere dai miei nonni, che abitavano lì vicino. Nonostante la sua età avanzata, mio nonno mi accompagnava a scuola tutte le mattine.
Nel 2003 è venuto a mancare, mi sono chiuso nella stanza del feretro per un'ora e ho rinnovato la promessa che gli avevo fatto nel 1997 – quando ero ancora nell'under 21 della Francia – che un giorno avrei giocato nella nazionale maggiore e gli avrei regalato la mia prima maglia.
A novembre del 2004 ho ricevuto la prima convocazione in nazionale, e come promesso ho deposto la prima maglia sulla tomba di mio nonno, ripagando così il mio debito di gratitudine verso di lui.
Come hai incontrato il Buddismo?
Stagione 2005/2006: era il mio primo anno alla Fiorentina. Un sogno, tutto magnifico, 3000 persone ad accogliermi allo stadio. «Frey para, Toni segna» urlavano i titoli dei giornali sportivi.
Dopo le vacanze di Natale c'è la Coppa Italia. Qualche ora prima dell'incontro Juve-Fiorentina a Torino, il mister mi chiede di giocare. Fu una brutta partita, a un quarto d'ora dalla fine arriva una palla in profondità, io faccio un'uscita bassa, il giocatore avversario invece di saltare mi mette il piede sulla gamba e mi fa esplodere il ginocchio.
Allora avevo venticinque anni, salto il Mondiale 2006, la mia carriera è messa a rischio e non so se mai potrò tornare a giocare dopo l’infortunio. Per fortuna dopo una lunga riabilitazione torno in campo ma con molti dubbi, incertezze e la paura di tuffarmi, di rialzarmi. Gli allenamenti sono complicati dal terrore di rompermi di nuovo il ginocchio, e io sono in forte difficoltà.
Così mi viene in mente Roberto Baggio, con cui ho avuto il privilegio di giocare ai tempi dell'Inter. Allora era già un campione affermato e io lo vedevo, con tutte quelle cicatrici, fare tutto il possibile per potersi allenare.
Io ero un ragazzino di diciotto anni e per me il suo esempio è stato illuminante. Avevo letto del Buddismo ma non sapevo nulla. Chiuso nella mia stanza decido di chiamare Roberto: «Ciao tigre», dico, «ciao tigre», risponde lui ed era come se stesse aspettando la mia chiamata. È stato molto emozionante perché io e lui abbiamo due storie parallele, anche se lui aveva subìto l'infortunio prima di me, ma nessuno poteva capirmi meglio di lui.
Gli chiedo come ne era venuto fuori e da lì è nato un legame bellissimo, mi racconta il suo percorso da buddista e di come la pratica gli abbia cambiato la vita e la carriera.
Potresti condividere dei momenti nella tua vita in cui hai sperimentato i benefici della pratica buddista?
I benefici visibili sono stati immediati: più recitavo Daimoku, più avevo la sensazione che stessi ritrovando serenità. Nonostante sentissi ancora molto dolore fisico, stavo imparando ad accoglierlo e il mio atteggiamento era diverso.
Torno in campo e l'allenamento va bene, vengo comunque criticato, non ero più determinante. Mi ritrovo in queste polemiche, ma grazie alla pratica buddista riesco a gestire bene le emozioni e non mi lascio influenzare.
Arriva la mia occasione due mesi dopo durante l'incontro Fiorentina-Lazio: faccio una parata sul tiro di Mudingayi, lo stadio è esploso e noi vinciamo. Posso affermare che il mio vero percorso è cominciato lì. La pratica buddista mi ha rafforzato, mi ha reso più consapevole dei miei mezzi e mi ha permesso di affrontare lo stress della partita e del pre-partita con una serenità senza eguali, trasformando il dolore in vittoria.
Quell'anno siamo arrivati primi come miglior difesa in campionato e io sono stato eletto miglior portiere. E la cosa più straordinaria è stata proprio la fiducia che riuscivo a infondere nei miei compagni di squadra, nonostante tutto quello che era successo.
Da lì mi sono detto: probabilmente ho imboccato la strada giusta. Oggi devo ringraziare quell'infortunio che mi ha permesso di abbracciare il Buddismo, di aprire la mia mente, di rafforzarmi e anche di vivere gli anni più felici con la mia famiglia.
Qual era la chiave per creare unità con i tuoi compagni di squadra?
Vengo da una famiglia molto modesta ma che mi ha insegnato ad avere rispetto e a riconoscere il valore delle cose. Questi princìpi uniti alla mia personalità, al mio talento e alla mia leadership mi hanno permesso di sostenere la squadra come capitano.
Era una cosa naturale, qualsiasi calciatore avesse un problema, veniva a parlarne con me e, senza mai forzare la mano, io gli parlavo sempre del Buddismo.
Nello spogliatoio tenevo un incoraggiamento del maestro Ikeda in cui afferma che il punto fondamentale della vittoria è quando i componenti di un gruppo sono uniti nei loro cuori.
Lo leggevo tutti i giorni per caricarmi, perché la missione quotidiana all'interno dello spogliatoio per me era trasmettere qualcosa di positivo ai miei compagni.
I riconoscimenti per la mia carriera sono sicuramente importanti, ma il lato umano è quello a cui tengo di più.
Recitavo Daimoku mattina e sera e sempre prima di ogni partita. Era un momento importante per me per concentrarmi e prepararmi mentalmente.
L'unica cosa che rimpiango è di non essere stato molto presente nelle attività del gruppo buddista per il mio timore di aprirmi a causa della notorietà. Comunque, i compagni di fede che mi hanno sostenuto hanno fatto in modo di non farmi mancare nulla, organizzando dei mini incontri appositamente per me. In particolare ho molta gratitudine verso Maurizio che fin dal principio mi ha sostenuto, ha recitato Daimoku con me e mi incoraggiato ad approfondire la fede, un grande esempio per me di come si sta vicino alle persone.
Ci sono tanti ragazzi che cercano di eccellere nel calcio o in altre discipline. Che consiglio daresti alle nuove generazioni?
Quando un bambino gioca a calcio, deve farlo per divertimento. Se poi il divertimento diventa un lavoro, le prospettive cambiano. I ricordi più belli legati al calcio sono proprio quelli di quando ero bambino, quando tra una partita e l'altra mangiavamo e stavamo insieme. Eravamo spensierati.
Essere un calciatore professionista è il lavoro più bello del mondo, ma ti porta via tante cose. Devi rendere conto a un club, a uno sponsor, a un procuratore.
Ai giovani dico per prima cosa di credere sempre in se stessi. Se stai bene con te stesso, anche le altre persone staranno bene con te. Inoltre, la disciplina nel lavoro è fondamentale.
Rispettare le regole, credere sempre in se stessi e non mollare mai. Questo è sempre stato il mio motto.
Se ti comporti bene e lavori sodo, alla fine otterrai risultati. Non tutti arrivano al 100%, ma una buona parte sì. A volte bisogna essere pazienti. I compagni di fede, tra cui Maurizio che mi ha sempre sostenuto, sono stati fondamentali per me. Anche nei momenti difficili mi hanno sempre dato buoni consigli. Per i giovani è importante avere una guida.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Attualmente produco vino, una delle mie passioni, faccio il papà a tempo pieno, il lavoro più bello e difficile del mondo, partecipo a molti eventi e ho scritto il libro della mia vita che uscirà a settembre, con il titolo Istinto puro.
Sono felice di aver gestito bene la mia vita ed aver fatto della mia passione un lavoro.
Ad agosto tornerò a giocare in amichevole in Cina. Siamo già stati là lo scorso gennaio per una partita delle “Leggende del calcio” ed è stato un evento emozionante! Anche se non gioco più, mi impegno in eventi e attività sociali di beneficenza.